Il Museo Etnografico a “El casèlo dei Grotti” di Tonezza del Cimone
“La civiltà agricola di montagna”, percorso turistico- culturale all’interno del Museo Etnografico “El casèlo” dei Grotti di Tonezza del Cimone.
La storia del Museo Etnografico di Tonezza del Cimone
A Tonezza per secoli si allevarono soprattutto pecore e capre, per ottenere lana, latte e carne. L’allevamento dei bovini giunse solamente più tardi e segnò il passaggio ad un’economia quasi esclusivamente basata sulla produzione del latte e sulla sua lavorazione.
Fino almeno alla prima Guerra mondiale questa si svolgeva in ogni casa, con latte proprio e quello preso in prestito dalla gente della contrada, producendo forme di 3 – 4 chili di formaggio con un quantitativo di circa 40 litri.
Fu dopo la Grande Guerra, col diffondersi di una vita sociale maggiormente “integrata” fra le diverse famiglie, che nacquero i primi “caséli turnari“, favoriti anche dalla diffusione del “conajo”, “cajo” o caglio, estratto con la quarta parte dello stomaco dei vitelli poppanti, necessario per far coagulare il latte.
A Tonezza del Cimone si crede che il primo “casèlo”, quello di Sarcello, sia sorto nel 1923, dopo il ritorno dei profughi, ricostruzione del paese, e la ripresa delle attività di allevamento sui pascoli, pazientemente “livellati” e bonificati dai crateri provocati dagli ordigni bellici. Quello dei Grotti sorse poco dopo.
Il Museo Etnografico di Tonezza del Cimone, la descrizione del Sindaco
<<L’acquisto, da parte del Comune di Tonezza del Cimone con il contributo della Comunità Montana “Alto Astico e Posina” negli anni 80, del vecchio e abbandonato casello turnario di Contra Grotti, è stato seguito da un recupero conservativo, rispettoso dell’esistente, iniziato dalla precedente Amministrazione e ultimato dall’attuale.
Un recupero certamente importante: perché era l’ultimo casello rimasto fra quelli un tempo presenti a Tonezza; perché non era mai stato trasformato nelle sue strutture architettoniche, già di per sé “edificio-museo” per la sua tipica struttura; perché testimoniava l’attività agricola e di allevamento condotta anche nelle malghe, tutt’ora esistenti alle Fratte e sul vicino altipiano dei Fiorentini; per non disperdere del tutto gli ultimi arnesi usati, perché le nuove generazioni possano erudirsi; per non dimenticare le nostre origini e i ricordi degli antenati.
Si trattava, però, di creare qualcosa di nuovo e di diverso dalle solite “vetrine”: un museo nel museo, arricchendo il patrimonio di attrezzature per la lavorazione del latte, con altri centri di interesse propri delle tradizioni della memoria agricolo-montana. Per questo, nel corso dei lavori di restauro, si è pensato di inserire nella ricchezza museale pure dei tipici ambienti della vita e della cultura locale, come la cucina rurale, la camera del “casàro”, e il luogo per “copare el mas-cio”, collegando cosi la lavorazione del latte alla nutrizione dei suini con lo “scoro”.
Poi, seguendo le indicazioni del sig. Stefano Bortoli, curatore anche di altri Musei, si è cercato di rendere “viva” l’intera esposizione, con manichini raffiguranti “el casaro”, il norcino, la tipica donna del luogo, allestendo la sala audiovisiva per le scolaresche e i gruppi di visitatori, con l’inserimento, tramite impianti visivi e di filodiffusione, di atmosfere cromatiche e sonore per la “calièra”, per gli odori e i rumori. Caratteristiche particolari per favorire una visita in un ambiente ancora vivo e attivo.
Il complesso museale etnografico si inserisce in un circuito che prosegue nel “Giro delle Malghe” e in una rete socio-culturale-didattica già presente a Tonezza, con il “Sentiero Fogazzariano”, il “Sentiero Excalibur” e il “Cimitero AustroUngarico”, con l’area museale all’aperto del Cimone.
Come Sindaco, tengo in modo particolare a questa realizzazione, perché temo che se non si investe, oggi, nella storia del passato e delle tradizioni, non avremo nemmeno futuro. Come uomo non posso poi dimenticare che in questo “casèlo” hanno lavorato come “casari” sia mio padre Giuseppe, che l’ultimo casaro, lo zio Francesco Aurelio.
L’invito, per i visitatori, è quello di cogliere ogni aspetto di quanto proposto, nell’ottica di recuperare emblemi di una cultura divenuta storia.
Un sentito ringraziamento va a tutti coloro che hanno collaborato, fornendo materiale e attrezzi privati, rinunciando alla loro proprietà per il bene collettivo, e favorendo, quindi, l’allestimento di un sito tanto caro alla memoria. >>
Il Sindaco, Amerigo Dalla Via
Caselo turnario
Il nome di “caselo“, cioè di costruzione dove si portava e si lavorava il latte, probabilmente deriva dal tedesco “kase”, che significa “formaggio”. Serviva alcune contrade e, per tutta una serie di motivi, era “turnario” e molto diverso dalle latterie sociali. Tutti gli interessati, regolarmente costituitisi in Associazione, contribuivano all’acquisto del terreno e alla costruzione del fabbricato.
Si stabilivano le quote di ciascuno in caratti o “carati” ( corrispettivo in millesimi) in base al numero di bestie possedute da ognuno dei turnisti. Tutta l’organizzazione funzionava con i carati, che non si potevano compravendere, vero e proprio metro di misura per la suddivisione delle spese e dei proventi.
Importante ed essenziale era la figura del “casaro“, un salariato assunto sulla scorta del quantitativo di latte conferito dai soci, dalla cui bravura dipendeva la qualità della produzione casearia. Il latte, appena munto, veniva portato al casèlo, in vasi di latta o di rame stagnato, puliti e debitamente coperti, due volte al giorno.
Nel libro-mastro, tenuto dal casàro, e in un apposito libretto di proprietà di ogni singola famiglia, si registrava scrupolosamente ogni singola pesatura.
La lavorazione
Si lavorava il latte della sera precedente e della mattina, stabilendo quante forme fare.
Dapprima questo veniva messo a riposare, per una decina di ore, in mestèle, o piâne, bacinelle di 15 – 20 litri ciascuna, in un locale arieggiato, per favorire la panna di affioramento, per fare il burro, tolta con la spanaròla. Il socio, che quel giorno voleva fosse prodotto il proprio formaggio, si portava una fascina di legna secca per alimentare il fuoco posto sotto la grande “caliéra” in rame.
Il latte veniva mescolato con la “batarèla”, fino al formarsi della caja, la caliata. Si scaldava e si separava la caliata dal siero. La caliata si rapprendeva, si passava con il triso e si tagliava. Poi con la batarèla veniva mescolato fino alla giusta cottura. Si lasciava depositare sul fondo della caliera. Con la coppa in legno di frassino si passava sotto e si prendeva tutto il blocco. Oppure, con il filo, si tagliava a metà.
Si metteva la calata dentro le fassàre, fasce rotonde di legno, regolabili, collocate sopra il parsòro (o scolaròla), un tavolo inclinato, con alla base una rete fissa con crine di cavallo, per far colare il siero residuo. Qualche volta si tagliava un pezzettino di caliata, ancora senza sale, per ottenere la tosella.
Il siero rimasto nella caliéra aveva due destinazioni: d’inverno si produceva la “puina”, oppure se il siero veniva scremato con la centrifuga a mano, da una parte usciva lo scòro per alimentare i maiali e dall’altra la panna per produrre il burro.
La pezza restava nel locale più caldo per qualche giorno, girandola più volte. Poi passava in un altro locale per la salatura. Poi il formaggio passava ai piani superiori, più freschi. Collocato sui piàgni, rastrelliere orizzontali, era spesso rigirato. Le forme destinate a durare 1-2 anni si passavano con olio di lino, le altre potevano già essere mangiate dopo 2-3 mesi. I soci potevano portarsele a casa, consumarle o venderle per proprio conto, spesso ai negozianti di Thiene e Zanè.
I casèli di Tonezza
A Tonezza esistevano 6 caselli, qui indicati con il nome della località e degli storici e rispettivi casàri:
Campana (Matteo Campana), Canale (Giuseppe Dalla Via), Grotti (Francesco Aurelio Dalla Via e Giuseppe Dalla Via), Pettinà (Vincenzo Fontana, Bortolo Pettina e Giuseppe Dalla Via), Sarcello (Matteo Pettina e Vincenzo Fontana), Valle (Lino Dalla Via).
Il casaro talvolta d’inverno, in caso di copiose nevicate, aveva la possibilità di alloggiare nel caselo. Oltre alla loro principale funzione, i caseli erano anche luogo di incontro, di scambio di notizie e di aggregazione.
Sviluppo e fine di un’epoca
Lo sviluppo dell’agricoltura di montagna, dell’allevamento bovino e dell’attività dei “caseli” durò fino agli anni 70, quando l’espansione dell’industria, e di altri lavori meno faticosi e più remunerativi, servì da forte se non ineludibile attrazione per molti Tonezzani.
Ciò mise fine ad un’attività economica che, nei periodi più prosperi, aveva visto l’allevamento di 500 – 600 vacche, alimentate sfalciando ogni minimo lembo di prato, fino ai pascoli alti.
Testimoni di quell’epoca sono ancora oggi proprio i caselli. L’ultimo “casèlo”, dei Grotti, smise di funzionare nel 1975.
Il Casèlo dei Grotti: un museo animato
È un Museo animato. Con moderne tecnologie, infatti, il visitatore è spinto a vivere, quasi “dal vivo”, atmosfere d’altri tempi, relative alla vita che si svolgeva nel casèlo stesso, durante le varie fasi della lavorazione, ascoltando suoni e rumori, subendo la suggestione di impressioni visive e olfattive, conoscendo non solo l’arte del casaro, e l’esposizione dei numerosi arnesi usati nella civiltà contadina di montagna, ma anche ambienti domestici d’epoca, ancora perfettamente arredati, in un itinerario culturale certamente formativo.
Il Percorso Museale
1 Sala videoproiezione.
2 Camere del casaro.
3 Esposizione attrezzi.
4 Cucina.
5 Ingresso e pesatura.
6 Prima lavorazione.
7 Seconda fase.
8 Copàre el mas-cio.
Contatti
Aperto solo su prenotazione. Per informazioni e prenotazioni di visite guidate rivolgersi all’Ufficio Turistico di Tonezza: tel. 0445749500 oppure alla Biblioteca Comunale: tel. 0445 749032.
Ingresso € 2,00 intero, € 1,00 ridotto.
Materiale gentilmente concesso dall’Ufficio IAT di Tonezza del Cimone.